Roma – 9 Marzo 2021 – Gianmarco Tognazzi, 53 anni, interpreta l’allenatore Luciano Spalletti in Speravo de morì prima, la serie tv sugli ultimi due anni di carriera di Francesco Totti, dal 19 marzo alle 21.15 su Sky Atlantic e in streaming su Now Tv. Recitare è l’arte di famiglia per Gianmarco Tognazzi, che vedremo nel ruolo di Luciano Spalletti nella serie tv sugli ultimi anni di carriera di Francesco Totti. Ma per lui il «lavoro vero» è l’azienda agricola di Velletri, ereditata dal padre Ugo. Che diceva lo stesso della cucina.

Vuole parlare del mio lavoro o del mio hobby?». Gianmarco Tognazzi risponde al telefono dopo una giornata nelle vigne di La Tognazza, l’azienda vinicola nella tenuta di Velletri che fu rifugio, impero ed eredità di suo padre Ugo. «È stata una buona annata, nonostante tutto». Il lavoro è dunque questo (suo padre diceva lo stesso della cucina). Poi c’è l’hobby, la recitazione, che è l’arte di famiglia e il motivo di questa telefonata.

Tognazzi interpreta Luciano Spalletti in Speravo de morì prima, la serie sugli ultimi anni di carriera di Francesco Totti, tratta dall’autobiografia scritta con Paolo Condò, su Sky Atlantic e Now Tv dal 19 marzo. Pietro Castellitto fa il capitano, Greta Scarano è Ilary Blasi e Tognazzi ha il ruolo del cattivo della storia, almeno nella prospettiva tottiana, l’allenatore che lo ha spinto a un addio pieno di amarezze.

“Speravo de morì prima”, a Sky’s Tv Serie focused on Roma’s football player Francesco Totti.

Spalletti è permaloso, lo sa?
«Se è per questo anche io».
Ci ha parlato?
«Ho preferito di no. Se fosse stato un amico, come Gattuso, magari lo avrei fatto. Ma temevo che un confronto col soggetto mi avrebbe messo in crisi. So di averlo interpretato con rispetto. Spalletti, e lo dico da prolisso quale sono, è un uomo che ama l’eloquio dilungato, se avessimo dato spazio al suo modo di parlare sarebbe diventato invasivo».

Avete fatto un gran lavoro sulla parlata dei personaggi, lei e Castellitto.
«Eppure si sono lamentati prima ancora di vedere la serie, sulla base di un trailer».
Chi si è lamentato?
«Ho letto i primi commenti sui social. Volevano i sosia, si sono fissati su quanto uno somiglia all’altro, ma si può? Ma chi se ne frega di quanto l’attore che interpreta De Rossi somiglia a De Rossi».
Lei quindi è uno che si va a leggere i commenti sui social?
«Piuttosto che scrivere stronzate preferisco leggere stronzate. Certo, è una curiosità che dura dieci minuti, ma in quei dieci minuti finisci per leggere analisi di una superficialità e di una irrilevanza totali».

Forse dovrebbe rinunciare pure a quei dieci minuti.
«Non perdo tempo sui social, infatti, però hanno dato a tutti l’illusione di avere un peso specifico. Non è che tutti possano parlare di calcio, cinema, politica. Prima c’erano gli hater, ora è chiunque, prendono, taggano, offendono. Ma come ti permetti, da quale pulpito?».

Tornando alla serie, c’era una dinamica padre-figlio andata male tra Totti e Spalletti, secondo lei?
«Sono troppo vicini di età, vedo più un risentimento tra amici, tra persone che si sono state molto vicine nei momenti difficili, poi i ruoli, le aspettative, il contesto hanno guastato tutto».

Non avevate timore di essere troppo vicini al materiale storico, che fosse troppo presto?
«Non ci interessava la cronaca. È una serie basata sul ricordo e la visione di Totti. La considero un gesto di generosità da parte sua, aprire il privato, le percezioni. Io ho cercato la parte sentimentale delle posizioni».

Ha dato consigli a Castellitto sulla vita da figlio d’arte?
«Non ho bisogno di dare consigli, semmai di riceverne. Lui è un artista di talento. Ha preso lo spirito, l’indole di Totti, la reattività nel modo di essere e parlare. Te ne freghi della somiglianza, quando vedi uno così bravo».

Nel libro che ha scritto insieme ai suoi fratelli su vostro padre c’è nostalgia di un’Italia in cui il cinema sembrava al centro di tutto.
«È cambiata l’Italia. Per anni abbiamo fatto passare l’idea che cultura fosse una parola brutta. Ma la cultura è fatta soprattutto di operai specializzati, a fronte di 30mila attori abbiamo 500mila operai. E il ruolo dell’attore era sfatare tabù, esercitare una critica sociale, erano simboli. Oggi basta diventare personaggio, i ragazzi sognano di diventare famosi, il come è irrilevante».

È dura portare questa eredità?
«La gente ragiona su leggende metropolitane, luoghi comuni inventati. I figli d’arte! Il nepotismo! Ma allora il mio curriculum dovrebbe essere pieno di persone che hanno lavorato con mio padre e non è così. Ecco perché per me è diventato un hobby, non può che essere così dopo che uno vede come il lavoro dell’attore è considerato in generale. O è un hobby o ti ci fai il sangue amaro».

Siamo nella settimana di Sanremo, lei condusse la famosa edizione dei figli d’arte del 1989, con memorabile incursione di Beppe Grillo. Che ricordi ne ha?
«Fu un festival a compartimenti stagni, da una parte noi giovani presentatori, dall’altra gli intrattenitori. Ci deve mettere l’immaturità, l’incoscienza, il timore. E poi essendo in quattro, bastava lo scivolone di uno per far cadere tutti. Però fu un’edizione di ascolti irripetibili, canzoni passate alla storia. Sono riconoscente a quel Sanremo, al di là dell’etichetta di edizione dei figli d’arte».

Le pesa, questa etichetta, in generale?
«Mi sembra un’eterna polemica sterile, è un problema che tocca più gli altri che me».

Il lungo addio
Gianmarco Tognazzi con Pietro Castellitto, 29 anni, che interpreta Francesco Totti in una scena di Speravo de morì prima. Iacovelli – Zayed, Grooming Chiara Corsaletti.

 

fonte: www.vanityfair.it/show/cinema/2021/03/09/chiamiamolo-hobby